La Provincia di Cremona, 1 dicembre 2024
CREMONA – ‘La città si cura in una comunità educante’: non è solo un titolo, ma è una prospettiva d’azione che entra nel cuore dei più recenti fatti di cronaca, non da ultimo l’aggressione del 14enne davanti a scuola in via Palestro.
Emergenza educativa, ragazzi che non si sentono stranieri nel luogo in cui abitano, gli aspetti sono molteplici e di questo si parlerà domani dalle 9,30 alle 13 in saletta Mercanticon il professor Gustavo Pietropolli Charmet, uno dei più importanti psicoterapeuti italiani, esperto dell’età dello sviluppo e dell’adolescenza, fra i massimi esperti di problematiche adolescenziali. L’iniziativa è organizzata dal Pd e vuole offrire un contributo al dibattito sulla sicurezza pubblica, messa in crisi da azioni delinquenziali sempre più spesso compiute da giovanissimi. Da qui la connessione fra sicurezza e cura.
Roberto Galletti, segretario cittadino del Pd, introdurrà la mattinata che vedrà confrontarsi con Pietropolli Charmet Matteo Mauri, deputato del Pd, Matteo Piloni, consigliere regionale del Pd, Andrea Virgilio, sindaco di Cremona, don Francesco Fontana, presidente della Focr, don Giuliano Stenico, presidente della Fondazione Ceis, Alessandra Lupi, psicologa del Minotauro, Roberto Poli, direttore del Serd e Andrea Moretti, dirigente del settore politiche educative del comune di Carpi. Si è chiesto a Pietropolli Charmet come sia sanabile quello che appare uno scontro fra vecchi e giovani, uno scontro fra generazioni, fra mondo: quello adulto che ha fagocitato tutto e quello dei ragazzi che si sente defraudato dal futuro.
Come l’attenzione ai giovani e al loro disagio può contribuire a migliorare il vivere comune?
«Avere in famiglia, a scuola e per le strade della nostra città, un gruppo di figli e studenti giovani che siano contenti della città dove abitano, siano sereni collaboratori della vita domestica sarebbe un miglioramento della qualità della vita della comunità sociale nel suo insieme: quindi se identifichiamo i giovani come fascia debole, esposta al malumore, alla rabbia, al desiderio di vendetta e quindi a gesti a volte antisociali, inconsulti, che seminano, disagio un malumore profondo nella società complessiva abbiamo risolto uno dei problemi del nostro vivere sociale».
I ragazzi immigrati di seconda generazione spesso si sentono estranei al mondo, come costruire un senso di appartenenza per questi ragazzi?
«L’impresa è difficile e vedo che né in Francia, né in Inghilterra, né in Germania ci sono riusciti e sono alle prese con gruppi piuttosto combattivi e vendicativi perché i giovani di seconda generazione hanno un debito d’onore con il loro padre che è arrivato prima ed è stato umiliato, mortificato, ha dovuto sacrificarsi per riuscire a inserirsi e a inserire la sua famiglia. Hanno quindi dei motivi familiari intrinseci, in più sono combattuti tra le divinità, le bandiere, le religioni, l’etica della terra da cui proviene la loro famiglia e le aspettative della vita sociale. Il loro malumore è particolarmente comprensibile, a differenza di altri gruppi di giovani che sono più fortunati e hanno meno motivi di protesta ed invece si fanno vivi in modo violento e oltraggioso. È una questione complicata, però non si può dire che non ci si sta lavorando e a me sembra che si stia facendo il possibile: i risultati non sono soddisfacenti, ma questo è quello che è successo anche in tutte le altre nazioni dove il problema è lo stesso e mi sembra che da quello che si può leggere sui giornali, la protesta nelle altre nazioni sia espressa in modo ancora più preoccupante di quanto non succeda qui in Italia».
Le crisi di ansia, di rabbia sembrano caratterizzare questa generazione di giovani, perché?
«Queste osservazioni emotive mi lasciano sempre perplesso perché sono calcoli molto difficili, non vorrei che siano desunti sulla base di fatti di cronaca più che da analisi statistiche, cioè da episodi isolati che hanno una loro spiegazione nella irripetibile storicità della famiglia, del gruppo umano cui appartengono. Che i giovani siano travagliati da dolori, sofferenze, ansie, angoscia, depressioni è vero: statisticamente non c’è dubbio che ci sia una frangia di ragazzi che ricorre anche e volontariamente in modo molto esplicito ai servizi psicosociali, agli sportelli di consulenza scolastica. Quindi è chiaro che c’è una maggiore consapevolezza da parte dei ragazzi di come funziona la loro mente e di come potrebbe funzionare molto meglio se riuscissero a capire cosa c’è che non va, cosa c’è che li disturba. Sulle dimensioni del fenomeno e sul ritenere che questi fenomeni di disagio psichico caratterizzano questa generazione io sarei parecchio prudente».
I ragazzi ci acusano di aver rubato loro il futuro, come aiutarli?
«Bisogna assolutamente che riusciamo a instaurare delle forme di cooperazione, collaborazione e coprogettazione con i giovani, in modo che sentano che il problema del futuro riguarda loro, ma in realtà riguarda tutti, riguarda anche la generazione dei loro padri e delle loro madri e c’è molto da fare. Però dipende da variabili talmente grosse e importanti che è molto difficile conservare la speranza di riuscire ad influenzare i potenti della terra che hanno in mente una qualità di sviluppo che non è quella auspicata dai giovani, e neanche dalla maggior parte degli adulti, almeno del nostro Stato e della nostra popolazione. Penso che ci siano delle speranze di riuscita e che si possa pensare che questo pessimismo rispetto a ciò che riserva il futuro, non solo ai giovani ma a tutti quanti noi, possa essere sfatato da una considerazione più pacata di come funzionano le cose oggi – che non funzionano bene ma neanche così male. C’è la possibilità di trovare degli spazi di vita abbastanza sereni e sulla base di questo si può fondare una fondata speranza che il futuro possa essere figlio di questi angoli di serenità costruttiva e collaborativa che siamo riusciti a costruire».
Come ha visto mutare i bisogni dell’educazione?
«Il mondo educativo è entrato in crisi da quando è entrato in crisi il principio di autorità. Era relativamente facile illudersi che l’apparente pace sociale che si respirava nelle scuole, nelle strade fosse profondamente radicata nel cuore e nella mente dei ragazzi e dei cittadini. Non era così: il vento della protesta che ora soffia qua e là piuttosto impetuoso svela che in realtà il cambiamento del modello educativo che fondamentalmente è centrato sulla crisi del patriarcato e quindi sulla ricerca disperata di una nuova autorevolezza che sia credibile, fondata e quindi riconoscibile come valida e legittima».
Un’altra domanda che si collega a questa: perché la scuola ha fallito?
«È difficile dire perché la scuola, fra tutte le istituzioni, le aziende, le organizzazioni, sia riuscita a rimanere immobile in mezzo a un cambiamento anche radicale di tutto il resto della società che la circonda. La scuola attuale non la trovo dissimile da quella che ho frequentato io ben 80 anni fa, è la stessa scuola, si parla delle stesse cose, ci sono gli stessi problemi: significa che non è cambiato nulla. Ma un’area così significativa come l’area educativa che rimane immobile in mezzo a un vorticoso cambiamento di valori, di qualità di relazioni, di distribuzione del potere, di prospettive progettuali, non possiamo più considerarla come una istituzione educativa: è un servizio che offriamo alla famiglia perché in qualche posto devono essere sistemati i ragazzi mentre i genitori lavorano».
Che ruolo possono avere la politica e i partiti?
«Penso che la crisi dei partiti sia reale e profonda, lo stesso sistema democratico ha bisogno di una trasformazione, di un cambiamento. A me sembra che dove c’è più passione e dove si vedono meglio i risultati è nell’area dei movimenti che spontaneamente si formano in quartieri, nelle associazioni che si propongono uno scopo e lo raggiungono più facilmente di quanto non riesca a farlo un partito. Quindi credo che stiamo attraversando, senza dirlo esplicitamente, un periodo di crisi dell’intero sistema democratico che deve essere rivisto. Di questa crisi sono sintomi la scarsissima affluenza alle elezioni, la scarsa passione politica e la difficoltà a trasmettere valori e narrazioni convincenti alle nuove generazioni: credo e spero che un cambiamento sia prossimo venturo».
L’intervista è disponibile anche sul sito de La Provincia- Cremona a questo link