La paura di essere brutti

Recensione, con intervista, del mio ultimo libro di Daniela Condorelli su D di Repubblica 

Prima si sentivano in colpa. Ora si sentono brutti. E non c’è niente di peggio. Gustavo Pietropolli Charmet, tra i massimi studiosi italiani di adolescenza, ha scritto per Raffaello Cortina editore La paura di essere brutti, gli adolescenti e il corpo, in libreria dal 20 marzo. D.it l’ha intervistato per capire perché i ragazzi di oggi non amano ciò che vedono allo specchio e le conseguenze, alcune terribili, del rifiuto del proprio corpo.

«In adolescenza il problema è sempre stato far convivere la mente con il corpo, ma fino a qualche anno fa il ragazzo era assalito dai sensi di colpa alla scoperta degli istinti sessuali e aggressivi del corpo. Ora lo rifiuta, se ne vergogna. E la vergogna è ben peggiore del senso di colpa. La colpa è più facile da risolvere. Intanto riguarda, un’azione, una parola, non coinvolge il valore del sé. La vergogna invece colpisce in profondità, non dà scampo».

Io sono un avatar
Nei ragazzi che si sentono brutti, è il corpo ad essere messo sul banco d’accusa. Non piace, quindi lo si punisce o si cerca di renderlo adeguato. Si spiega così il tentativo da parte di molti adolescenti di cancellare il proprio fisico, attaccandolo, affamandolo o sformandolo. Oppure l’atteggiamento di quei giovani che si ritirano nella propria cameretta e mandano nel mondo il proprio avatar. O, ancora, di quelli che si infliggono ferite. Farebbero bene, dunque, i genitori ad accorgersi che il problema non è banale: chi si sente brutto è rovinato. Al punto che il rifiuto del corpo è all’origine dei maggiori disastri della crescita: disturbi della condotta alimentare, ritiro sociale, autolesionismo.

Si possono tracciare responsabilità in questo attacco al corpo generalizzato?

«Nella società del narcisismo, in cui i modelli fin dalla nascita invitano ad avere un certo tipo di successo “estetico”, la patologia può essere solo questa: la paura di essere brutto». Pensiamo alle aspettative crudeli imposte dagli ideali di bellezza più diffusi, che generano una rincorsa a diete e palestre non giustificabile sotto una certa età. Un’alluvione di immagini negative cade sulla testa dei ragazzi “nel tempo della muta”. Questo è il momento in cui l’adolescente ha più bisogno di specchi sociali e conferme, in cui si confronta con il giudizio, implacabile, del gruppo. Proprio mentre il corpo si sta trasformando e ci sono lavori in corso di cui bisogna, con pazienza, aspettare l’esito».

Come rimediare?

«Genitori e scuola hanno il dovere di creare una cintura sanitaria intorno alla mente dei ragazzini, costruire una cultura antidoto rispetto alla capacità di penetrazione che hanno i modelli proposti dai mass-media. Ora che hanno le mani libere dal punto di vista etico, perché alcuni discorsi sono stati “sdoganati”, non devono limitarsi a invitare a essere più sobri, ma sostenere le conquiste della corporeità». Per esempio, il padre farebbe bene a riconoscere la prestanza fisica del figlio, a valorizzarla. La madre a far notare che quel naso grosso della quindicenne sua figlia è un segno distintivo di famiglia, il profilo del nonno cui tutti sono affezionati. «Anche gli insegnanti di educazione fisica possono fare di più: lavorare sui modelli di bellezza, discutere in maniera costruttiva di diete, fare luce sugli effetti degli integratori, proporre un consumo intelligente delle palestre», conclude Charmet. In sintesi: offrire le competenze per una “controcultura” del corpo.

 

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